Primavera di sangue

Primavera di sangue

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C’è stato un periodo, in Italia, in cui due erano i colori del sangue. Nero e rosso. Il profumo nell’aria, nel pieno risveglio di una crisi politica e sociale dilaniante, era il sudore acre della paura. Un clima pesante, con rovesci temporaleschi simili a quelli del Cile prima dell’avvento di Pinochet. L’Italia al sapor di piombo inizia la sua corsa verso la violenza nel 1969. La strage di Piazza Fontana sancisce la presa di posizione, al tavolo del macello, dell’offensiva terrorista neofascista. Si sussurrano nomi, si suppongono, poi avvalorate, collaborazioni con i servizi segreti italiani in una costellazione di gruppi e nomi difficili da individuare. Ne svetta uno. Semplice e immediato negli intenti. Ordine Nuovo. Si legge, sul periodico di lotta alla società borghese del gruppo, un editto profetico datato 20 marzo 1974. “Non c'è più niente da salvare. Si deve distruggere tutto per tutto ricostruire”. Il terrorista padovano Franco Freda, agli arresti per la strage di Piazza Fontana, è considerato un martire da vendicare.  


La primavera è alle porte. 

Brescia sboccia in un eccesso di frenesie fasciste. Il suo fiore più velenoso è Silvio Ferrari, 18 anni, figlio di genitori benestanti. Introverso e problematico, è coinvolto in un'esperienza politica totalizzante e si considera una combattente in prima linea contro la borghesia e le forze filo comuniste. Va spesso a Padova, alla libreria che era proprio del Freda e legge, si immerge in libri nazisti con la voracità di un cadetto pronto a passare dalla teoria alla pratica della guerriglia. La sua, come quella di altri suoi compagni bresciani, è un’escalation sempre più verticale verso la tragedia.


9 marzo 1974. 

Lancia dal suo scooter una molotov contro un corteo studentesco.

Sempre 9 marzo.

Dei neofascisti sono fermati e poi arrestati in Vallecamonica mentre trasportano mezzo quintale di esplosivo.

15 marzo. 

Insieme ad altre squadre d’azione Silvio distrugge la facciata del supermercato Coop di viale Venezia.

8 maggio.

Viene scoperta una borsa nell’androne della sede della CISL a Brescia in via Zadei. Gli attentatori non sono riusciti ad accendere la miccia. Sarebbe stata una strage.


La città precipita nella paura.  

Silvio Ferrari decide di alzare il livello dello scontro. Vuole dare l'esempio ai suoi camerati. La notte tra sabato 18 e domenica 19 maggio preleva un ordigno composto da 3 Kg di tritolo con un detonatore elettrico e l'accensione a batteria, allaccia alla cintura la fondina con la pistola Beretta calibro 7 e 65 e verso le 3 di notte parte in sella alla sua Vespa 125 direzione Piazza Mercato. Frena, accosta al marciapiede, appoggia i piedi a terra e si sposta con tutto il suo peso sul manubrio. Forse per un malore oppure per sistemare il pericoloso ingombrante bagaglio. Il tritolo esplode in modo imprevisto e lo scaglia per aria. Il giovane ha le gambe staccate dal tronco, la motoretta accartocciata è bruciata, le saracinesche dei negozi vicini sono scardinate, i vetri dei caseggiati infranti. Si pensa a un errore nella predisposizione del timer. O al surriscaldamento provocato dalla vicinanza della sostanza esplosiva al motore.

La morte di Silvio viene percepita come un salto di qualità nella catena di attentati terroristici. 

Al suo funerale si notano composizioni floreali neonaziste e serpeggiano voci di vendetta per il camerata. Un altro martire, questa volta caduto, accende gli animi sovversivi. La strategia della tensione tocca Brescia sotto una pioggia scrosciante.

In risposta a questo dilaniante senso di caos, la popolazione non cede e manifesta.

CGIL CISL e UIL proclamano per la mattina di martedì 28 maggio 1974 una marcia pacifica contro gli attentati. La Brescia antifascista risponde con fermezza. Alle ore 9 sono 2500 le persone che confluiscono in Loggia. Un improvviso acquazzone li coglie.

L’istinto porta a ripararsi sotto la Torre dell’Orologio, vicino alle forze dell’ordine, o in vicoli adiacenti.


La strage si riverbera in diretta, mentre Franco Castrezzati, segretario dei metalmeccanici della CISL bresciana, sta parlando al microfono.

Un boato si propaga nella piazza. Una nuvola di fumo nella pioggia accompagna un momento sospeso nel nulla, seguito subitaneamente dal caos e la paura. Alle 10.12 scoppia una bomba nel cestino portarifiuti agganciato alla colonna del porticato. 


Centotre feriti. 

Nell’aria, si dileguano veloci le vite di otto persone. 


Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante di francese.

Livia Bottardi in Milani, 32 anni, insegnante di lettere alle medie.

Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica.

Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante.

Euplo Natali, 69 anni, pensionato, ex partigiano.

Luigi Pinto, 25 anni, insegnante.

Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio.

Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio.


Coperture e depistaggi, per oltre quarant’anni, hanno reso quella bomba una perfetta scenografia del male. Gli apparati di Stato, ispiratori di quelle bande nere che muovevano a piacimento, hanno sviato le indagini e reso ancor più stridente il dolore delle vittime.

Solo nel 2017, dopo quarantatre anni, è arrivata la condanna. 

Il verdetto è arrivato dopo due istruttorie che avevano portato solo ad assoluzioni.


Il raggiungimento della verità giudiziaria è dovuto ad alcuni magistrati capaci e alla voce ostinata dei parenti delle vittime, queste ultime guidate da Manlio Milani, che proprio durante la strage perse la moglie davanti ai suoi occhi. 

Le ferite della città, la forza e la dignità del ricordo sono, in Manlio, sentimenti da condividere per rigettare, ancora una volta e in modo totalizzante, la violenza. Il grande progetto dell’associazione Casa della Memoria deve a lui la visione di un mondo non dimentico del proprio dolore, della propria sofferenza ma, per infinite volte, attivo nella partecipazione. 


Onorare le vittime significa, in una società frammentata e votata al solipsismo, educare civicamente al rispetto della vita umana. Manlio, nel suo infinito pellegrinaggio antifascista, è il portatore di questa fiaccola mai spenta. 


In marcia, fianco a fianco a questo grande piccolo uomo, ci fu Renato Borsoni e, per continuità di intenti, il nipote Luca e tutta la famiglia di ASB\COMUNICAZIONE. 

Consci del potere della parola e della forza propagatrice di ricordo dell’immagine, ogni anno, ogni primavera, ci impegniamo a rendere omaggio alla sopravvivenza della democrazia.