Palermo, arancine;
Napoli, pizza;
Roma, carbonara;
Milano, fast-food.
Un mosaico con quattro tasselli, e la guerra fra campanili gastronomici d’Italia si accende.
Battaglie tolkieniane, guerrieri della notte che si sfidano fra i quartieri dell’articolata metropoli del gusto. Personalissimo, inviolabile.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un post satirico di una pagina Facebook piuttosto seguita. Quasi 1,2 milioni di seguaci, per dover di cronaca. Oggetto della pubblicazione, come succitato, il confronto fra quattro simboli culinari di quattro metropoli italiane diverse, da Nord a Sud.
E la Milano da mangiare ne è uscita vituperata, scippata di piatti come la COTOLETTA (caps lock volutamente attivo, deve essere urlato), solo per citare quello che tutti abbiamo imparato ad amare, fin da bambini.
Un commentatore meneghino ribatte al post, creato ad hoc per titillare il tifo più accanito, quello legato alle tradizioni della propria terra natale. “Bravissimi, lasciateci le nostre prelibatezze!”.
Foto allegata alla didascalia, quella di un piatto di Ossobuco con Risotto allo Zafferano.
Una fotografia orrenda.
Una ricetta che, per altro, nell’iconografia storica della cucina italiana, è per definizione, esteticamente brutta.
Inquietante come l’immagine da recluso del mostro di St. Pauli, Fritz Honka; disturbante come la scena gore di una lasagna che esplode nel microonde, insozzandone le pareti.
Inutile elencare le reazioni impietose degli altri commentatori, tutte concentrate sull’aspetto del povero Ossobuco in questione.
Nell’epoca della buccia che ha più proseliti della polpa, del buono che a fatica, quasi mai, vince sul bello, combattere una carbonara con un brutto Ossobuco è impresa spartana. L’Ossobuco può piacere o meno, ma disintegrarne la fama secolare solo per il suo aspetto, è atto di pura ingratitudine alla nostra storia.
L’effetto collaterale è però quello di un concetto incontrovertibile della comunicazione e dell’immagine, che si consolida. Un concetto sacrosanto.
Non esiste piatto, oggi, originale o tradizionale, che possa trascendere con sufficienza i canoni dell’estetica, anche minimi.
Perché un piatto oggi è un’esperienza totale, si mangia con tutti i sensi, anche con il sesto, quello del personale istinto capace di valutarne aprioristicamente la bontà.
L’Ossobuco per questo è stato negli anni scomposto, riplasmato, reincarnato.
Tempo fa assaggiai la creazione di uno chef stellato, un raviolo allo zafferano con ripieno di gremolada, il famoso trito, quest’ultimo, di aglio, prezzemolo e scorza di limone che dà lo slancio finale proprio all’Ossobuco milanese.
“Questo raviolo è ripieno dell’anima del piatto che simboleggia Milano”, mi disse mentre io masticavo con espressione goduriosa la sua creazione. Manco a dirlo, quel raviolo era bellissimo.
Non c’è scampo: un piatto si degusta anche con le sinapsi del ricordo, che attivano le fauci.
Non esiste probabilmente alcuna persona al mondo, nemmeno il massimo esperto mondiale di postproduzione fotografica, capace di rendere universalmente bello un povero Ossobuco con Risotto allo Zafferano.
Però può diventare, quello sì, meno brutto grazie a poche attenzioni: uno scatto fotografico decente con una luce azzeccata, una disposizione nel piatto che stimoli l'appetito dell'osservatore. Attenzioni che impediscano a una ricetta leggendaria di rievocare il rigurgito del vostro cane dopo una salita in auto al passo Pordoi.
E che non giustifichino gli internauti, specie quelli di nuove generazioni, nell’asserire, prima di assaggiarlo, che il piatto in questione "sia una schifezza".
Io non so se, come avrebbe detto il principe Myskin ne “L’Idiota” di Dostoevskji, “La bellezza salverà il mondo”.
Mi basta sperare che occhi ispirati dalla bellezza, salvino l’Ossobuco.