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Restare umani nei nuovi linguaggi.

Restare umani nei nuovi linguaggi.

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Socio Dirigente

Perché i fondamentali della comunicazione servono più che mai.

A volte mi capita di pensare che, in fondo, comunichiamo come abbiamo sempre fatto: con parole, gesti, sguardi. Solo che oggi lo facciamo anche con emoji, prompt, chatbot e video in 9:16.

L’intelligenza artificiale ci parla, noi le rispondiamo, e nel frattempo ci chiediamo se ci capisce davvero.

Ecco: questa domanda - “ci capiamo davvero?” - è il cuore della comunicazione da sempre.

Quando Shannon e Weaver, nel 1949, elaborarono il modello lineare della comunicazione, il mondo stava imparando a usare i telefoni. Il loro schema - fonte, canale, destinatario, rumore - funzionava per i segnali elettrici, non per le persone. Perché noi, a differenza dei cavi, abbiamo intenzioni, emozioni, contesti.

Eppure il loro concetto di rumore resta attualissimo: oggi non è solo un microfono gracchiante, ma una notifica, un algoritmo, un feed troppo pieno. Il lavoro di chi comunica, allora come oggi, è creare chiarezza e senso nel rumore.

Negli anni Settanta, Paul Grice ci ha insegnato che comunicare è un atto di cooperazione. Quando parliamo, diamo per scontato che chi ascolta voglia davvero capire. I suoi quattro principi - quantità, qualità, relazione, modo - funzionano ancora meglio se pensiamo a un copy o a un post.

Chi comunica oggi deve chiedersi: sto dicendo abbastanza, sto dicendo il vero, sono rilevante, sono chiara?

E magari anche: sto rispettando chi mi legge, in tutte le sue diversità di linguaggio, cultura, percezione?

Poi arriva Austin, che ci ricorda che parlare è fare: quando diciamo “prometto”, “scelgo”, “supportiamo la diversità”, non stiamo descrivendo, stiamo agendo. Ogni comunicazione è un atto performativo, diceva anche Searle.

E quindi, quando un brand afferma “ci impegniamo per l’inclusione”, non basta scriverlo: sta compiendo un atto che ha effetti reali, che genera aspettative e responsabilità.

Le parole, insomma, fanno cose. E nel 2025, le parole “fatte” dalle AI ne fanno ancora di più.

Dell’accessibilità parlano da tempo le direttive europee, prima ancora ne ha parlato Dell Hymes, con la sua idea di competenza comunicativa: non basta la grammatica, serve capire quando, come e con chi parlare.

Nel mondo dei prompt e dei chatbot, questa competenza è la nuova alfabetizzazione: chi sa “parlare bene” con l’AI è chi conosce le regole sociali della comunicazione umana.

Perché anche con un algoritmo serve empatia.

La parte più umana, però, resta quella non verbale.

Watzlawick lo diceva chiaramente: “non si può non comunicare”.

Anche un silenzio, uno sguardo, un’inquadratura dicono qualcosa.

Oggi, nei video brevi o nelle campagne AI-generate, la prossemica - la distanza tra i soggetti, il modo in cui un volto guarda in camera - continua a trasmettere fiducia o distanza, accoglienza o potere.

L’antropologo Edward T. Hall, parlando di proxemics, ci ha lasciato una bussola preziosa per capire il “quanto vicino” e il “quanto lontano” anche nel digitale: un primo piano è intimo, un’inquadratura larga è pubblica.

E non è un dettaglio da regista: è un gesto di relazione.

C’è poi la mimica, la parte più primitiva e insieme più universale.

Darwin la studiava già nell’Ottocento, e Paul Ekman l’ha resa scienza con le sue micro-espressioni.

Un sorriso, anche digitale, può attivare empatia.

E oggi, mentre costruiamo avatar e assistenti virtuali, stiamo insegnando alle macchine a “leggere” e “mostrare” emozioni. Ma forse prima dobbiamo insegnarlo di nuovo a noi.

Perché non basta riconoscere un volto che sorride; serve capire perché lo fa, e se quel sorriso è condiviso.

Anche i nuovi codici visivi - le emoji, per esempio – raccontano questa continuità.

Qualche mese fa trovavo “la frutta” simpatica, la mettevo alla fine di molti messaggi. Poi, guardando "Adolescence" ho scoperto che non è sempre una melanzana.

Ecco, i codici cambiano, i significati si stratificano. Come insegnano Lakoff e Johnson, le metafore e i frame con cui comunichiamo modellano la realtà.

Così un’emoji diventa simbolo di identità, ironia, appartenenza. E chi comunica oggi deve sapere che la “frutta” non è mai neutra.

Tutto questo per dire che, tra un algoritmo e un prompt, i fondamentali della comunicazione restano la nostra vera tecnologia.

Capire il rumore (Shannon), rispettare la cooperazione (Grice), agire con le parole (Austin), leggere il non detto (Watzlawick), progettare la distanza (Hall), riconoscere l’emozione (Ekman).

Sono strumenti che non si aggiornano con un plug-in, ma con consapevolezza, ascolto e diversità di sguardi.

E forse è proprio questo il punto: nel tempo delle AI che “parlano”, il valore dei comunicatori non sta nel produrre più messaggi, sta nel custodire il senso.

Perché la tecnologia può imparare a riprodurre i codici, ma la responsabilità di creare relazione, per fortuna, resta umana.

Per la revisione stilistica di questo articolo ho chiesto un parere a ChatGPT, il contenuto, le connessioni e la voce restano miei.

Mi piace pensare che anche questo sia un esercizio di comunicazione: imparare a dialogare con un’intelligenza artificiale, e restare umani nel modo in cui costruiamo senso insieme.