La verità, vi prego, sulla libertà di espressione

La verità, vi prego, sulla libertà di espressione

 di lettura
Relations Expert

La libertà di espressione è un diritto. Ma le sue conseguenze le sappiamo affrontare?

È da un po’ che mi domando (e mi direte, cielo! che buon tempo che hai) se libri come Lolita (romanzo nella mia personale top 5) o un sceneggiature di film come Pretty Woman (odio questo film, odio Julia Roberts nella “la prostituta che trova redenzione dal miliardario, il quale prima però non disdegnava l’amore mercenario”) verrebbero pubblicati oggi.

Forse dovrei chiedermi se verrebbero scritti.

Ho dei dubbi che uno scrittore acuto come Nabokov si farebbe fermare dalla censura, per paura di sanzioni (le ebbe comunque, e non poche) e nell’ottica di non finire al centro delle critiche. Come ho dei dubbi che Julia Roberts non accetterebbe il ruolo della prostituta dal cuore d’oro ma dagli incontri sfortunati.

Trovo tuttavia affascinante la prospettiva per cui oggi queste storie (come molte altre) vengano lette in modo critico. Mi spiego meglio: dagli anni 90 ad oggi, il linguaggio e la percezione si sono evoluti vertiginosamente, cambiando il punto di vista sia dello spettatore sia di chi produce contenuti. Il focus si è spostato: non è libertà di opinione, ma la massificazione dell'opinione e le sue (relative) conseguenze.


Cosa succede se il New York Times pubblica un “commento fascista”

Queste considerazioni mi sono venute in mente quest’estate, leggendo di Bari Weiss, famosa editorialista americana condannata e insultata furiosamente da molti colleghi per una serie di messaggi su Twitter per aver difeso l’editoriale del senatore repubblicano Tom Cotton, comparso sulle pagine del Times. Il politico aveva infatti evidenziato la necessità di intervento dell'esercito per contrastare le proteste del movimento Black Lives Matter. 

Nella mia opinione (per cui assolutamente criticabile) l’idea di tolleranza delle opinioni altrui non può prescindere da un “netto etico”: ascolto solo chi è tollerante, viceversa scelgo di essere assolutamente intollerante con gli intolleranti. 

Forse, però, così è troppo semplice.

Chi scrive, chi si espone, chi comunica parte sempre da un rischio altissimo: la paura di non essere letti correttamente o pienamente compresi, di essere rifiutati, di non avere un pubblico, di essere fuori moda, di ritrovarsi soli a portare avanti una idea.  

Tornando da dove sono partita, è ancora possibile oggi una Lolita? Ci sentiamo liberi di amare un libro dai contenuti scabrosi? Avremmo paura di scrivere un post a sostegno di Nabokov?

Prima di pretendere sensibilità e comprensione dagli altri, dobbiamo essere noi a offrire sensibilità maggiori verso chi ci circonda.

La comunicazione sensibile è l’unica via per uscire dall'impasse. Scrivere e comunicare (senza dimenticare che saper comunicare efficacemente con gli altri presuppone sempre che si sappia comunicare bene con noi stessi) senza mai dimenticare il mondo dell'altro. 

Nelle democrazie occidentali, la libertà di espressione è più o meno un diritto assai solido. Non scomparirà domani. La vera domanda è se sei pronto ad esprimerti prendendone tutte le responsabilità, che non si esauriscono nell’atto (alle volte molto egoista) di “dire la mia”.

Così ora ho trovato un mio nuovo metro personale sulla libertà di espressione (e cito Buddha, ça va sans dire):  

“Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, ed infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire”.